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Consapevolezza, inventiva e integrazione: così possiamo affrontare l’apocalisse culturale che stiamo vivendo

L’epilogo di un Convegno, se particolarmente ricco di voci, di narrazioni e di idee come quello appena concluso, apre spazi di riflessione e nuovi interrogativi che ci spingono a confrontarci, ad approfondire, a cercare corrispondenze fra quanto abbiamo ascoltato e il nostro personale vissuto.

L’impostazione del Convegno in lectio e successiva discussion è stata di ispirazione e supporto: i moderatori che hanno gestito le discussion hanno dato spazio a molteplici punti di vista, a volte provocatori, a volte portatori di sintesi, tutti diversi perché profondamente collegati alla singola esperienza.

Dalla nostra analisi personale e dal dibattito continuato in Consiglio Direttivo Regionale, dove le valutazioni si sono ulteriormente arricchite, abbiamo scelto alcune parole chiave che riteniamo possano costituire il leitmotiv dei processi formativi in un contesto come quello attuale che possiamo definire stato di transizione o, secondo la visione del filosofo Ernesto De Martino, apocalisse culturale.

La prima parola è consapevolezza.

Come ci ha ottimamente illustrato Marinella De Simone, per interpretare il presente occorre divenire consapevoli della complessità in cui siamo immersi, non solo studiandola, ma sentendola e conoscendola attraverso i sensi e le emozioni.

Come possiamo arrivare a pensare e sentire contemporaneamente e congiuntamente la complessità per acquisirne profonda consapevolezza?

In un contesto che è sempre più VUCA (Volatile, Incerto, Complesso e Ambiguo), occorre, innanzitutto, mettere in dubbio la certezza del sapere che ci impedisce di vedere ciò che non conosciamo, a favore di una visione più sistemica, in cui la formazione non porta verità, ma stimola il dialogo sulle interazioni fra i fenomeni e sull’ecologia delle nostre azioni.

Dobbiamo proporre, quindi, metodi formativi che superino la tradizionale distinzione fra discipline scientifiche e discipline umanistiche, perché la domanda non è più qual è la causa che ha generato un certo effetto, ma qual è l’impatto delle mie azioni in quanto essere umano e parte di una comunità, qui e ora, e come posso definirmi e ridefinirmi nei momenti di cambiamento, per poter concepire nuovi scenari o occupare quelli esistenti in modo nuovo.

A seguito dell’intervento di Anna Zanardi Cappon, abbiamo riflettuto su quanto la pandemia ha profondamente cambiato la nostra relazione con gli spazi reali e virtuali e l’uso che facciamo della tecnologia; in questo scenario, compito del formatore diventa fare sense-making del cambiamento supportando le persone nel definire quale rilevanza ha oggi essere fisicamente presente, che cosa significa gestire le relazioni in un sistema in cui la distanza può far perdere tridimensionalità all’essere umano e andare verso un modello in cui il concetto di accountability, di rendere conto delle proprie azioni, viene superato a favore della capacità di prendersi cura del proprio lavoro, dei propri obiettivi, di sé, dei propri spazi.

Nel rapporto con la tecnologia questo significa anche riflettere sul valore che l’essere umano genera nella sua interazione quotidiana con i dispositivi che utilizza e trovare nuovi modi in cui le proprie peculiarità rispetto alla “macchina” possano esprimersi e integrarsi con i meccanismi tecnologici, così da non esserne sopraffatto.

E da questa ricerca emerge la seconda parola, che è inventiva.

Lasciandoci trasportare dalle idee espresse da Maurizio Ferraris, abbiamo accolto il principio che ciò che potrà aiutare le persone a gestire il cambiamento che stanno vivendo non è la creatività, come processo generativo tout court, ma la capacità di avere inventiva, intesa come l’arte del trovare risposte all’insorgere di un problema, di pensare a tutto ciò che potrebbe essere, utilizzando un metodo.

L’inventiva intercetta conoscenze ancora sconosciute, ma possibili, e le fa proprie ampliando la consapevolezza dell’uomo. In questo, scienza e arte seguono lo stesso processo: le nuove idee nascono sempre dalla capacità di osservare, definire e dare senso al fenomeno che si vuole rappresentare.

Il formatore può quindi essere facilitatore di processi inventivi, sviluppando percorsi di immaginazione e di osservazione della realtà e delle relazioni fra gli elementi della realtà stessa. Gestire le narrazioni del vissuto individuale e collettivo, cogliere le esigenze e le forme emergenti dei comportamenti, stimolare il dialogo anche fra parti in conflitto sono alcune delle competenze che il formatore e la formatrice possono portare nei propri ambiti professionali per favorire la capacità di innovare, rinnovare e rinnovarsi.

Consapevolezza e inventiva ci portano entrambe a superare le dicotomie e le separazioni e ad andare verso una visione sistemica delle cose, in cui fondamentali sono l’interdipendenza e le correlazioni.

Non più scomposizione, ma integrazione.

Integrazione è la terza parola chiave.

Ci è stata ispirata fin dalla prima giornata dall’intervento di Juan Carlos De Martin, docente del Politecnico di Torino, quando ci ha presentato l’ambizioso e visionario progetto del Politecnico: un corso curriculare che, affrontando sei “Grandi sfide” del mondo contemporaneo, prevede il co-insegnamento di un docente di impostazione tecnica e di uno di area umanistico-sociale, proveniente dal mondo delle scienze umane e sociali.

Alla base del percorso, obbligatorio per tutti gli studenti della triennale di Ingegneria, (ma aperto anche, su base volontaria, agli studenti di Design, Architettura e Pianificazione Territoriale interessati e agli studenti di Filosofia dell’Università di Torino) c’è la profonda consapevolezza di quanto la complessa realtà del nostro tempo richieda collaborazione e integrazione tra saperi e competenze.

Un insegnamento che diventa un progetto in cui dare forma a un pensiero divergente, contaminato, a tratti “impertinente” e proprio per queste sue caratteristiche perfetto per cogliere a pieno le sollecitazioni che arrivano dalla società.

I futuri ingegneri, architetti, designer e pianificatori saranno chiamati a sviluppare le loro “thinking skills” non solo grazie a sollecitazioni teoriche, ma anche attraverso la

realizzazione di progetti che permetteranno loro di concretizzare quanto imparato, sempre seguendo un approccio interdisciplinare.

L’aggregazione dei saperi ci ricorda che integrazione è riconoscimento dell’altro, rispetto nella differenza e collaborazione per far emergere qualcosa di nuovo.

L’attenzione (di tipo sistemico, non banale) ai cambiamenti culturali e organizzativi, richiede di porre l’accento proprio sul reciproco rispetto e di affrontare apertamente la spesso sottintesa diatriba di valore tra studi tecnici e studi umanistici, per superare una polarizzazione che in uno scenario complesso come quello attuale è davvero datata e inadeguata.

Il formatore è chiamato sempre di più a sperimentare percorsi strutturati in modo tale da offrire non la semplice mescolanza, ma l’integrazione di punti di vista e competenze diverse; un passaggio importante, impegnativo sia per la progettazione didattica sia per il modo in cui deve essere presentato e affrontato nelle organizzazioni, che rende tuttavia possibile affrontare i temi e le sfide del presente con maggiore consapevolezza delle proprietà e delle qualità emergenti dalla complessità.

Questo non significa che dobbiamo abdicare in toto a semplificazioni, soluzioni veloci e pattern comportamentali, ma che occorre essere consci che queste modalità sono limitate.

Come formatrici e formatori, se pure per praticità utilizziamo schemi consolidati, dobbiamo rifuggire dalla logica dei bullet point (le dieci regole per la formazione, i cinque elementi da non dimenticare e così via) e dalle etichette (il formatore contemporaneo deve essere un facilitatore, un designer, un artista, un coach?) e sviluppare una visione sistemica della professione in cui essere elementi flessibili. Consapevoli che, come ha ben descritto il Premio Nobel per la  Fisica Philip Warren Anderson in un articolo datato 19723, “More is different”: a diversi livelli di complessità emergono proprietà tutte nuove, non deducibili dai livelli precedenti.Introducendo regole, modelli e tecnologie i gruppi e le organizzazioni mutano forma e in quella nuova forma ognuno di noi professionisti deve trovare il ruolo che consente il miglior apprendimento generativo.

Per concludere, riteniamo che le parole chiave che abbiamo riferito ai processi formativi possano essere fonte di riflessione anche per ciò che concerne attitudine, modalità e metodologie con cui svolgiamo la nostra professione, non dimenticando che l’apocalisse culturale riguarda anche noi personalmente e ci può portare ad avere le stesse difficoltà che patiscono le persone che accompagniamo nei processi formativi. Accogliamo, quindi, con convinzione l’invito espresso da Giuseppe Varchetta a chiusura della prima giornata e rivolto a chi (formatori, manager, imprenditori, ecc) si occupi di persone: lavoriamo su noi stessi con continuità, per maturare consapevolezza, innovarci e integrare le nostre competenze.

Daniela Cevenini

Consulente, Formatrice e Wingwave Coach, è esperta di comunicazione interna ed esterna 1all’azienda, progetta e realizza corsi di formazione emozionale e si occupa di sviluppo personale attraverso percorsi di Coaching individuale e di team. È Vicepresidente del Direttivo AIF Emilia Romagna.

E-mail: daniela@comunicabene.it

Giulia Sabbadini

Facilitatrice, Visual Coach e Formatrice, è specializzata in facilitazione grafica, visual thinking e formazione al linguaggio visuale, e offre percorsi di Visual Coaching individuale per il lavoro sul sé, la consapevolezza e il cambiamento È membro del Direttivo AIF E.R. 

E-mail:  giulia@visualcoach.it

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