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Arte e complessità: il potenziale formativo dell’arte

 

Negli ultimi tempi è molto cresciuto l’interesse nei confronti del paradigma della complessità, un insieme di teorie, concetti e metodi multidisciplinari che attraversa diversi campi del sapere come biologia, fisica, psicologia, sociologia, economia, studi sul management, e tanti altri, e che ci permette di comprendere il tumultuoso e accelerato mutare del mondo in cui viviamo. Tutte le sfide di questo secolo (dal cambiamento climatico alle epidemie, dalle disuguaglianze economiche alla geopolitica mondiale, dall’esaurimento delle risorse naturali alla “vita digitale”) coinvolgono sistemi complessi. Sistemi composti di parti differenti connesse tra loro, in una varietà molteplice di relazioni non lineari, interdipendenti e che si influenzano reciprocamente.

Adottare la complessità non solo come prospettiva di ricerca, ma anche come approccio trasversale al lavoro formativo è una sfida di altro livello, certo, cionondimeno interessante per chi voglia sperimentare il passaggio dalla teoria alla pratica. 

Infatti leggere, studiare, partecipare a convegni e corsi di formazione è “condizione necessaria ma non sufficiente” per questo cambio di paradigma.

Le note che seguono nascono da alcune domande: come avviare un mutamento di mentalità e culturale che sia generativo di una più diffusa consapevolezza della complessità sistemica? L’arte, le arti possono accompagnare questo passaggio? Come?

Comincio con una definizione tratta dagli studi storici e di psicologia:

L’arte esprime il frutto dell’attività mentale, cognitiva e metarappresentativa degli aspetti fondamentali della vita umana. L’artista, dunque, non si preoccupa di ciò che vede, ma di quello che sa di quel soggetto, di come tradurre in segno l’immagine mentale che se ne è fatto. Nella pittura, nella scultura e nella grafica è proprio la funzione metarappresentativa (ovvero il mostrare un’immagine come se fosse la realtà) quella che ci interessa di più, poiché anche le opere più riconoscibili, più simili al vero (il paesaggio, le figure, le città, i ritratti), sono prodotti codificati dall’occhio di una mente. La rappresentazione non è mai uguale alla realtà, perché è filtrata dallo stile dell’artista in forme di equivalenza e non di verosimiglianza. Come scrive Rudolf Arnheim [1]Rudolf Arnheim, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano, ristampa 2002, l’equivalenza, anche nelle forme più semplici e più ingenue (dalla pittura rupestre paleolitica ai disegni dei bambini) è legata alla capacità degli esseri umani di afferrare una somiglianza strutturale tra una cosa e un segno, un contorno, una linea che “in natura non esiste come linea. (…) il che è nondimeno una formidabile impresa astrattiva.”

Il potenziale formativo dell’arte per sviluppare nuovi modelli di pensiero è legato proprio a tali “formidabili capacità astrattive” su cui si basa sia il produrre (da parte degli artisti) sia il riconoscere (da parte del pubblico e degli spettatori) le opere. Queste sono sempre rappresentazioni equivalenti alla realtà, dimensioni simboliche, traslazioni di concetti. E’ nel gioco, nel movimento di menti capaci di cogliere le equivalenze che si possono aprire spazi di esplorazione/comprensione della complessità, fondamentali per chi fa formazione. 

Un esempio noto a tutti, che riprendo da Ernst Gombrich [2]Ernst Gombrich, Arte e illusione, Einaudi, Torino (ristampato più volte dalla prima edizione del 1960): dipingendo con macchie, puntini, velature, gli impressionisti offrirono al grande pubblico di fine 800 un nuovo modo di vedere ed esplorare il mondo, un linguaggio inedito. Un cambiamento così rivoluzionario del rapporto tra arte e realtà che in quegli anni la battuta “la natura imita l’arte” divenne comune, così come l’uso dell’aggettivo “pittoresco” sinonimo di tipico, colorato, particolare “come una pittura”. E, a ribadire il concetto, ricordiamo una delle frasi celebri di uno scrittore inglese dell’epoca, Oscar Wilde: “non c’era nebbia a Londra prima che Whistler la dipingesse”. Continuando su questa falsariga, potremmo dire, ad esempio, che la dialettica, il movimento e l’alternarsi imprevedibile tra ordine e caso dei sistemi complessi non esisteva prima del dripping (sgocciolature di colore sulla tela) di Pollock.

L’arte ci insegna a vedere, può cambiare il nostro sguardo perché, cogliendo le equivalenze, siamo capaci di ap-prendere e ri-conoscere strutture e codici, anche radicalmente innovativi come quelli degli impressionisti o degli espressionisti astratti.

Per un formatore che volesse sperimentare l’arte come attività con i gruppi, tale capacità umana (pur con le tutte le inevitabili differenze soggettive) è una base cognitiva molto importante, e forse più significativa rispetto a dimensioni più spesso evocate come il potere della bellezza, l’apprezzamento estetico e il piacere che ne deriva, o le suggestioni affettive ed emozionali che le opere suscitano in noi.

L’arte resta tuttavia lontana dalle pratiche formative, perché si tratta di un linguaggio specifico per il quale sono necessarie conoscenze a diversi livelli, dalla lettura dello stile e della storia dell’artista, alla psicologia della percezione, fino alla ricerca dei termini da usare per “parlare di un quadro”.

A partire da queste conoscenze indispensabili, come proporre l’arte nella formazione? Le modalità di cui ho esperienza diretta sono di quattro tipi:

1) attività laboratoriali o di team building per la creatività, l’innovazione, il fare squadra. Art based learning : un’etichetta che riunisce esperienze di gruppo dove la manipolazione di oggetti e materiali di vario tipo serve a veicolare e dare forma espressiva a idee, significati, simboli. Il formatore qui agisce come un attivatore di energie e pensieri inventivi, immaginativi e di scambio tra i partecipanti, da trasferire/traslare nella realtà organizzativa.

2) Lezione metaforica intorno ad un tema. Il formatore elabora un racconto per immagini dove alterna la spiegazione e la lettura di una o più opere d’arte con il suggerimento di connessioni tra l’intento dell’artista e il tema oggetto della lezione. Il formatore qui ha una duplice expertise, sui contenuti d’aula e sull’arte. Durante la lezione egli sollecita sia il riconoscimento delle equivalenze sopracitate sia il pensiero metaforico che allarga, approfondisce e crea connessioni tra diversi universi di significato.

3) Attività outdoor con visita guidata a musei, gallerie, quartieri e città d’arte. Accompagnata da esperti, storici dell’arte o da artisti tale attività ha diverse valenze, non solo formative, tra il benefit culturale aziendale e la proposta neuroestetica (dove l’emozione della bellezza assume valore cognitivo). Il formatore integra e riprende il racconto, la spiegazione della guida museale, facendo leva, anche in questo caso, sulle capacità di riconoscimento delle equivalenze e sul pensiero metaforico.

4) Attività outdoor con visita a musei, gallerie, quartieri e città d’arte nel paradigma della complessità. Qui è il formatore che sviluppa una narrazione dove l’opera d’arte e la storia dell’autore diventano spunti per fare domande ai partecipanti, per attivare una posizione osservativa, esplorativa, di moltiplicazione delle interpretazioni. A differenza della lezione metaforica e del racconto della guida museale dove c’è qualcuno che “spiega l’opera” e ne conosce il significato, la posizione dello spettatore è ribaltata: sono i quadri ad interrogare lo sguardo, a porre domande agli “occhi della mente” dei partecipanti. Il formatore non parla dell’interpretazione “ufficiale” del quadro, ne illustra solo alcune caratteristiche. Facendo domande e invitando ad un’osservazione attenta e soggettiva, propone, peraltro, un esercizio di metacognizione, che è la capacità di auto-osservare l’attività di pensiero e di riflettere su schemi mentali che di solito diamo per scontati. Scostandosi dal ruolo di esperto della lezione metaforica e non cercando l’emozione della bellezza (neuroestetica), il formatore nel paradigma della complessità agisce così come creatore di un contesto che permetta l’osservazione di ciò che emerge, risposte variegate e differenziate, non prevedibili a priori. Un contesto di apprendimento aperto, “tra pari”, dove connettere gli elementi di una conoscenza co-costruita, una rete di spunti, riflessioni e scoperte.

Per lavorare in questo modo, l’arte è davvero un fattore importante che facilita il passaggio dalla ricerca della risposta giusta e di spiegazioni deterministiche di causa-effetto, ad una postura più sperimentale, flessibile, adattiva, di moltiplicazione dei punti di vista e delle soluzioni. Il quadro parla: come? di cosa? cominciamo così a sillabare in un linguaggio altro, ricco e immaginifico, denso di significati e di simboli lontani dalla quotidianità, un modo unico di aprirci a ciò che non conosciamo.

In conclusione, il potenziale formativo dell’arte nel paradigma della complessità è davvero trasversale ai diversi contenuti dei corsi o del coaching: ci spinge a cambiare vocabolario, ad affinare lo sguardo, ad ascoltare sensazioni che di solito censuriamo, a farci nuove domande, a cercare di dare un nome alle nostre intuizioni.

E ci aiuta ad affrontare le tante metamorfosi della vita, per comprendere le quali qualcuno, da qualche parte, ha creato opere dove troveremo frammenti del nostro “personale equivalente artistico”. Nella pittura e scultura, nella letteratura, nella musica, nel cinema, nel teatro ci sono. Basta cercarli.

Simonetta Simoni

Psicosociologa delle organizzazioni, consulente e formatrice, editore per passione della carta stampata e della saggistica narrativa. Con l’arte curo il benessere cognitivo e relazionale di gruppi e organizzazioni.

E-mail: simofeltrin@gmail.com

Riferimenti

Riferimenti
1 Rudolf Arnheim, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano, ristampa 2002
2 Ernst Gombrich, Arte e illusione, Einaudi, Torino (ristampato più volte dalla prima edizione del 1960

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