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Un modello integrato di psicoterapia psicoanalitica – Parte 1

 

 

Il segreto dell’empatia e quindi della capacità di comprendere i contenuti presenti nella mente dell’altro, secondo Raymond Mar, docente di psicologia alla York University di Toronto, consiste nel far scattare la possibilità dell’immedesimazione. L’immedesimazione, mettersi nei panni dell’altro, o meglio ancora patire l’altro dentro di sé (dal greco en-pathos, sentire dentro) è un meccanismo che si attiva, ad esempio, quando si leggono dei romanzi in cui ci sono dei personaggi complessi con tanti pensieri differenti che si confrontano, spesso in situazioni conflittuali. Secondo il ricercatore più i protagonisti assomigliano a personaggi letterari e mostrano una certa complessità di stati mentali, in cui buona parte delle intenzionalità che sottendono le azioni e i comportamenti sono nascoste e non sempre facilmente decifrabili, e più rappresentano per il lettore un allenamento benefico alla conoscenza e alla comprensione delle situazioni sociali e interpersonali. La sua tesi è sostenuta dalle neuroscienze che ci mostrano come le aree cerebrali più attive quando leggiamo romanzi sono le stesse che usiamo nelle situazioni sociali della vita reale. [1]Da un articolo apparso su l’inserto il Venerdì de la Repubblica del 20 maggio 2022, a cura di Giuliano Aluffi.
L’allenamento all’empatia avviene, dunque, fin dalla prima infanzia tramite la lettura appassionata e benefica delle fiabe:

Le fiabe e le storie nei libri per bambini sono piene di riferimenti agli stati mentali dei protagonisti, e quindi anche a situazioni dove qualcuno sa qualcosa che altri ignorano. [2]Ibidem, pag. 71

A tale proposito, egli cita un classico come la fiaba di Cappuccetto rosso, dove il bambino sa che la nonna che si trova sdraiata nel letto in realtà è il lupo travestito che vuole mangiarsela, e la discussione con gli adulti può vertere su questo tipo di conoscenza a priori che il bambino possiede sui contenuti nascosti che fanno parte del racconto:

Alcuni studi confermano che anche le conversazioni tra adulti e bambini che nascono a margine della storia sono ricche di riferimenti alle intenzioni e motivazioni dei personaggi. E tutto questo è un arricchimento: diverse ricerche suggeriscono che i bambini più esposti a queste narrazioni  risultano poi più avanzati, come cognizione sociale, rispetto ai loro coetanei. Ovvero riescono a “leggere” meglio nella mente degli altri. [3]Ibidem, pag 71.

Sembra dunque che la capacità di capire i personaggi letterari, che i lettori accaniti di narrativa guadagnano fin dall’infanzia e continuano ad arricchirla leggendo molti libri, serva anche a comprendere meglio gli altri nella vita sociale. La comprensione delle intenzioni che sono contenute nelle azioni descritte in un testo o nelle parole che si leggono nei racconti sono una sorta di esercizio all’ascolto emotivo, che in seguito ci viene in aiuto quando interagiamo con i nostri simili e cerchiamo di capire dalle azioni e dalle parole degli altri quali sono i loro pensieri e le loro effettive intenzioni nei nostri confronti o nei confronti di un terzo. In fondo cercare una significazione di senso alle azioni e immaginare quali sono le intenzioni che le sottendono, in un testo letterario che simula la vita reale, è un modo per comprendere e per dare un senso al mondo, per cercare di conoscerlo meglio e di decifrarlo nella sua complessità.

La tesi che le funzioni cognitive ed emotive che vengono attivate nella lettura dei racconti sono le stesse che ci servono per leggere meglio nella mente delle persone con le quali interagiamo nella vita di ogni giorno è sostenuta da un’altra ricercatrice di Psicologia e scienze cognitive dell’Università di Trento, Emanuela Castanò.
La ricercatrice ha utilizzato alcuni test molto convalidati – come intuire lo stato d’animo di 36 soggetti dalle fotografie dei loro occhi, oppure quello di intuire gli stati d’animo dei personaggi leggendo le loro storie – ed è riuscita a misurare l’efficacia delle storie sulla nostra psiche. In entrambi questi tipi di test, “i lettori di narrativa hanno ottenuto risultati più alti rispetto ai non lettori o a chi legge altri tipi di testi”.[4]Il commento di Emanuela Castanò alle sue ricerche è inserito sempre nello stesso articolo di Giuliano Aluffi “Leggere fa bene al cervello (non sempre)”, del Venerdì de la Repubblica … Continue reading
La Castanò si spinge anche oltre e arriva a sostenere che più i personaggi sono meno definiti, spiazzanti e poliedrici, come avviene nella narrativa letteraria e non in quella di intrattenimento, e più la capacità di mettersi nei panni dell’altro, per comprendere cosa c’è nella sua mente, si accentua.

Nel mio laboratorio abbiamo creato un “corpus” con centinaia di romanzi letterari e altrettanti popolari, e abbiamo analizzato il loro linguaggio con algoritmi di intelligenza artificiale. I testi più letterari hanno maggiore complessità lessicale e sintattica. Non è detto che sia questo il fattore chiave, però può contribuire: è probabile che per esprimere personaggi più complessi serva un linguaggio più ricco – spiega la ricercatrice – una cosa interessante è che nei testi letterari sono meno frequenti i termini che descrivono emozioni. É come se cercassero di non coinvolgere il lettore tramite il facile contagio emotivo, ma volessero creare una distanza che richiede sforzo mentale per essere colmata. [5]Ibidem, pag 71

L’uso dell’empatia e dell’immaginazione per comprendere le azioni, le sensazioni e le intenzioni degli altri, mentre interagiscono con noi anche a distanza, è ciò che caratterizza allo stesso modo del lettore di narrativa il lavoro psicologico che facciamo con i nostri pazienti, che incontriamo online e che vediamo solo tramite uno schermo e attraverso la mediazione di un mezzo tecnico. Anche in questo caso, la mancanza del contatto fisico e dell’esperienza emotiva condivisa, la limitazione di stimolazioni sensoriali e la visione parziale produce una distanza che può comportare uno sforzo maggiore per creare un contagio emotivo. La tecnologia che interviene per superare la distanza fisica, in questo caso, può favorire maggiore risonanza emotiva e ci può aiutare a capire gli stati mentali dell’altro anche in assenza di tutti gli stimoli sensoriali. Il segreto dell’efficacia e del funzionamento della psicoterapia online, cioè il lavoro terapeutico dello psicologo quando interagisce con il paziente in assenza fisica dell’altro e di uno spazio fisico condiviso, è in fondo tutto qui; dobbiamo fare uno sforzo maggiore di immaginazione e usare maggiormente l’empatia e la mentalizzazione per comprendere l’altro. Il processo terapeutico online è guidato da questi tre strumenti principali dei quali dobbiamo attrezzarci quando lavoriamo con i pazienti nei rapporti schermo. Quando lavoriamo online con i pazienti operiamo alla pari del lettore di narrativa che tramite l’immedesimazione e l’empatia riesce a costruire, forse senza saperlo, un processo di mentalizzazione che gli permette di entrare nella mente degli altri e di rappresentarsela, anche se i personaggi esistono solo sulle pagine del testo scritto che sta leggendo.

La Psicoanalisi tradizionalmente sostiene l’importanza di preservare le caratteristiche del setting condiviso, la stanza d’analisi, che deve consistere in un ambiente fisico che è condiviso simultaneamente tra analista e paziente. Il setting non è solo uno spazio fisico condiviso, il set vero e proprio, ma è anche l’ambiente emotivo in cui avviene l’incontro interpersonale. Si tratta di uno spazio condiviso separato dal mondo reale che funge, al momento opportuno e secondo le necessità del soggetto, da contenimento del paziente e da ambiente dove fantasia e realtà possono coesistere. Secondo la teoria psicoanalitica classica, sostenuta da autori quali ad esempio Otto Kernberg, l’ambiente contenitivo serve per favorire la regressione del paziente, in modo tale da stimolare un’esperienza emotivamente coinvolgente, in cui diventano accessibili i contenuti inconsci che attingono al passato relazionale del paziente (le relazioni oggettuali interiorizzate) e che tendono a essere riattualizzati nella relazione di transfert. Per Kernberg solo questo metodo e questa prassi terapeutica centrata sul transfert e sull’uso sistematico se non esclusivo dell’interpretazione possono essere definiti psicoanalisi. Visto il tipo elevato di coinvolgimento emotivo dell’analista, Kernberg ritiene importante che il processo avvenga in una situazione di neutralità analitica: l’analista deve essere capace di vivere queste emozioni e di tenerle sotto controllo senza tradurle mai in azioni o agiti di qualsiasi genere, che comprometterebbero la relazione con il paziente.

Il lavoro dell’analista si limita, in tal senso, a un’elaborazione dei propri vissuti emotivi che serve per comprendere meglio il paziente. Ma per comprendere meglio il paziente anche Kernberg sottolinea che lo strumento fondamentale da utilizzare è rappresentato dall’empatia.
Direi che l’importante è l’empatia, ossia la capacità di immedesimarsi nell’altro e di condividerne i sentimenti. É una capacità fondamentale, che si sviluppa ben presto nella vita. [6]M. Lütz, (2020) Dottor Kernberg, a cosa serve la psicoterapia? Raffaello Cortina, Milano, 2021. pag. 58.
Fattori quali l’empatia e l’esperienza emotiva condivisa sono reperibili anche online, solo che nel rapporto a schermo questi fattori, che sono considerati indispensabili per  rendere efficace il processo terapeutico, dipendono più dalle persone che dallo spazio condiviso, dalla disposizione empatica del terapeuta e dalla capacità sia del terapeuta che del paziente di mentalizzare i contenuti emozionali che emergono nell’interazione con l’altro. Allo stesso modo, altri fattori terapeutici che sono considerati fondamentali per rendere efficace il trattamento analitico, non necessariamente lo sono nella stessa misura per quello mediato da uno schermo, come ad esempio la neutralità dell’ambiente setting e dell’analista, la centralità del lavoro basato sull’analisi del transfert e sull’uso quasi esclusivo dell’interpretazione. Nella psicoterapia praticata attraverso lo schermo, non necessariamente l’assenza di fisicità agisce come ostacolo per sviluppare una relazione feconda ed emotivamente coinvolgente tra il terapeuta e il paziente. Abbiamo visto, con l’esempio degli studi sul vantaggio di chi legge narrativa letteraria, che la distanza, la complessità dei personaggi e una certa difficoltà ad accedere ai contenuti emotivi, favoriscono uno sforzo maggiore che serve a comprendere meglio l’altro.

 

Luciano Di Gregorio

Psicologo, Psicoterapeuta e Gruppoanalista, Socio ordinario della Società Gruppoanalitica Italiana (SGAI) e consigliere della regione Toscana dell’Associazione Italiana Formatori (AIF). Ultimo libro pubblicato “Nella stanza virtuale. Dal lettino alla psicoterapia psicoanalitica online” Mimesis 2022.

E-mail: lucidigre@gmail.com

Autore

Riferimenti

Riferimenti
1 Da un articolo apparso su l’inserto il Venerdì de la Repubblica del 20 maggio 2022, a cura di Giuliano Aluffi.
2 Ibidem, pag. 71
3 Ibidem, pag 71.
4 Il commento di Emanuela Castanò alle sue ricerche è inserito sempre nello stesso articolo di Giuliano Aluffi “Leggere fa bene al cervello (non sempre)”, del Venerdì de la Repubblica del 20 maggio 2022, pag.71.
5 Ibidem, pag 71
6 M. Lütz, (2020) Dottor Kernberg, a cosa serve la psicoterapia? Raffaello Cortina, Milano, 2021. pag. 58.

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